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GRAMMATICA DELLA LINGUA DENKA

DEL SOCIO DON GIOVANNI BELTRAME.

Al chiarissimo Presidente della Società Geografica italiana.

Se nel fare di pubblica ragione quest'umile frutto de' miei studj sulla lingua dei negri Denka, che abitano le rive del fiume Bianco nell' AfricaOrientale tra il 12o e 6o grado di L. N., io ho l'ardimento d'intitolare a Voi, illustre sig. Commendatore, l'opera mia, ciò non faccio io altrimenti per seguire la consuetudine comune degli scrittori, che sogliono raccomandare altrui i parti delle lor menti per una cotal foggia di moda o di complimento: ma mi vi indussi dal riflettere che l'opera mia ha davvero bisogno di un Mecenate amoroso, e che l'amoroso Mecenate non potevate essere che Voi. Io sono ben lungi dal credere che la mia grammatica e il mio dizionario denka sieno cose perfette, chè anzi veggo assai bene non essere ciò se non un primo conato in questo studio affatto nuovo, e tutt' al più uno sgombrare la via dei molti prunai ond'è piena, affinchè alcun altro valido e paziente ingegno possa trovare minori inciampi nello arduo cammino per cui mettere si volesse. Bisognoso io pertanto di coprirmi collo scudo di qualche riverito personaggio, a chi poteva io rivolgermi meglio che a Voi, egregio sig. Presidente, a cui tanto deve la Società Geografica italiana? A Voi infatti, coadiuvato dalla instancabile attività dei vostri Colleghi, fra i quali m'è dolce ricordare il nome dell'illustre viaggiatore dell' Africa-Interna O. march. Antinori, è dovuto il merito di avere promossa e fondata fino dal maggio 1867 codesta Società, dai vigorosi studj della quale tanto si ripromette l'Italia. Io confido che Voi, chiariss. sig. Presidente, farete buon viso almeno allo scopo di questi miei lavori, il quale fu di tornar di vantaggio alla missione cattolica ad un tempo ed alla scienza, che tanto lascia a desiderare sulla natura dei linguaggi dell' Africa-Interna.

Accogliete, chiarissimo sig. Presidente, i sensi della mia sincera benevolenza e della profonda stima, con cui ho l'onore di protestarmi,

Verona, 10 settembre 1868,

Umiliss Devotiss Servo
Don GIOVANNI BELTRAME
Rettore dell'Istituto femminile Mazza.

PREFAZIONE

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Ardui, come ben sa ogni letterato, sono gli studj filologici tanto se si risguarda la parte, dirò cosi, materiale e meccanica dei linguaggi, quanto, ed assai più, se si considera la parte filosofica dei medesimi. E quanto alla prima maniera di studj è duopo conoscere una infinita quantità di vocaboli, e le loro modificazioni, e il senso loro proprio e primitivo, e i molteplici costrutti, e, come dire, la fisonomia peculiare della lingua e il suo atteggiamento e mille altre ragioni di cose, alle quali tutte apprendere non è troppa la vita. E quanto alla seconda specie di studj, si deve scomporre e notomizzare le parole per coglierne gli elementi o le origini talvolta remote, e investigare l'indole e i costumi speciali dei popoli per intendere le ragioni dei loro traslati e della sintassi; e quello che s'è fatto d'una lingua, rifarlo dell'altre della stessa famiglia, e raffrontare e comparare e rilevar quindi le parentele e i gruppi delle dizioni comuni, e notare le differenze e assegnarne le cagioni, e poi le varie famiglie paragonare fra loro, e ripetere con più larghe vedute il lavoro per accostarsi a quella unità, la quale, come in ogni altra scienza, così anche in questa delle lingue è tanto lontana dal nostro intelletto, che spesse volte la perde di vista.

Ora se tutte queste cose rendono assai difficile lo studio. delle colte lingue europee, massime per ciò che risguarda la seconda specie di investigazioni, più arduo incomparabilmente rendono quello delle lingue selvaggie, che si parlano nel centro dell' Africa, delle quali è pressochè ignota anche la parte materiale. Le lingue di quelle tribù negre, che io ho conosciute in Africa, sono dotate di nature tutte proprie e restano fissate nel loro territorio.

Onde è che io, il quale ebbi, per motivi che dirò sotto, opportunità di viaggiare molte di quelle infelici regioni, ho creduto sarebbe ottima cosa, che pur quelle lingue fossero studiate profondamente; e quanto a me ho preferito quella dei Denka nella convinzione che essa fosse parlata dal maggior numero delle tribù lungo il Fiume Bianco, ove io mi trovava; ed ora, colla mia grammatica e dizionario denka, avrò, se non altro, recata la mia pietruzza al vasto edificio, che ogni di più s' innalza in questo genere di studj.

I Denka sono una grande tribù selvaggia dell' Africa interna, divisa in tante piccole tribù, lungo il Fiume Bianco, tra il 12o e 6o gr. L. N., fra i quali io sono vissuto lungamente, e ne ho studiato con pazienza i costumi e la lingua, per cui mi trovo in caso di dire quello, che ho veduto e studiato io stesso. Spiacemi ora di dover parlare di me medesimo, potendo ciò aver aria di millanteria; ma la necessità di chiarire le cose e far luogo alla verità, mi costringe a dir quanto segue:

Nel settembre del 1853 io partii per l'Africa insieme col sacerdote Vicentino Antonio Castegnaro, speditivi dal veronese dott. Nicola Mazza, allo scopo di trattare intorno ad un suo progetto di Missione col Provicario apostolico dell' Africa centrale dott. Ignazio Knoblecher. Ma solo un mese dopo il mio arrivo a Kartum (15° - 16° L. N.) il compagno moriva. - Allora io, presi gli opportuni accordi col Prov. Apostolico, feci da solo un viaggio ai Scianġallah lungo il fiume azzurro ed il tomat; viaggio che mi costò fatiche molte e disagi, e non raggiunse lo scopo ch'io mi era prefisso. M'occupai tuttavia a scrivere alcune memorie sui costumi di quei paesi, che stanno fra Kartum e Beni-Sciangol, capoluogo dei Sciangallah (10° 11° gr. L. N.) - Tornato da quel penoso viaggio convenni col Provicario apostolico d'iniziare una Missione italiana sul Fiume Bianco, che egli ben conosceva, e diceami esservi luogo opportuno

per una nuova Missione, forse fra i negri Denka. Perciò tornai sullo scorcio del 1855 in Europa a prendere nuovi Missionarj dell' Istituto Mazza, e nel 1857 ripartii per l'Africa coi sacerdoti Francesco Oliboni, Angelo Melotto, Daniele Comboni, Alessandro Dal Bosco, e con un artigiano, certo Isidoro Zili. Il Dal Bosco fu lasciato a Kartum, ed io cogli altri continuammo il viaggio sul Fiume Bianco fino ad una Missione cattolica, appellata Stazione di Santa Croce nella tribù dei Kic, fra il 6° e 7° gr. L. N. Vi trovammo il Missionario don Giuseppe Lanz deperito nella salute e moralmente prostrato per la perdita, che da pochi giorni avea fatto, del Missionario Bartolomeo Mosgan, il quale da 4 anni reggeva quella Missione, avendone già prima passati due nella Stazione di Kondokoro, sulla destra del fiume tra il 4° e 5o gr. L. N. Questa perdita tornava a noi pure tanto più amara, che nessuno scritto avea lasciato che ci potesse tracciare una via allo studio del denka. E neppure il Lanz, venuto direttamente d'Europa da circa un anno, senza conoscere l'arabo, aveva cognizione alcuna del denka. La lingua araba dovea rendere meno difficile lo studio della lingua denka, dacchè alcuni giovinetti di questa Missione parlavano tutte e due le lingue. La mia dimora in Santa Croce coi compagni Missionarj italiani dovea essere provvisoria, secondo gli accordi presi col Provicario apostolico Knoblecher. Intanto avremmo potuto ajutare l'opera di quella Missione; investigare la natura dei luoghi per scegliere poi quello che ci fosse paruto più opportuno ad istanziarvisi; e massimamente aver agio di avviare lo studio del denka. Ma in quest'ultima occupazione, che era per noi la più importante, sventuratamente non mi potei giovare dell'opera degli altri Missionarj. L' Oliboni, poco più di un mese dopo l'arrivo a Santa Croce, moriva in seguito ad una infiammazione di cervello. Il Comboni fu quasi sempre tormentato da febbri, che non gli lasciarono posa, se non quando dopo un anno

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