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Or se costui non fu monaco del monastero annesso alla chiesa di Pammachio, convien supporre che, indipendentemente dal suddetto monastero, vi fosse nel sesto secolo un corpo di ecclesiastici, canonici o checchè altro, i quali attendessero al servizio di quel titolo, di cui uno sarebbe stato il Donatus dell'iscrizione di S. Paolo.

Erano i mansionarii chierici addetti alla custodia dei sacri tempii, così appellati, perchè vi avevano, ferma residenza: mansionem habentes (1). Se ne parla nei Dialoghi di S. Gregorio ed in varii luoghi del Liber Pontificalis (2). Ma il nome e l'istituzione, sono più antichi, come può ricavarsi dalla seguente iscrizione di stile e carattere damasiano e perciò del secolo IV:

LOCVS FAVSTINI QVEM COMPARAVIT
A IVLIO MANSIONARIO (3).

Donde apprendiamo inoltre che in quel tempo, i mansionarii avevano ancora parte nell'amministrazione temporale delle chiese, e che perciò ad essi si dovesse ricorrere per ottenere concessioni di sepoltura sia nei portici sia nell'interno della basilica, nel modo stesso che si ricorreva ai fossores per i loculi delle catacombe (4). Ho detto: se pure il Donatus dell'iscrizione di

MABILLON, ComTOMASSINO, Discipl. eccl. t. I, 1. II,

(1) PANVINIO, De interp. voc. obscur. eccl. h. v. ment. ad Ord. rom. cap. IV. c. 103.

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S. Paolo non fu monaco del monastero annesso alla basilica dei SS. Giovanni e Paolo; imperocchè nulla osta che tale egli non fosse. Di fatto in un documento dell'anno 975 presso il Du Cange trovo sottoscritto uno Scamberto mansionario, il quale esercitava la professione di monaco ed inoltre era sacerdote:

Scambertus presbyter, monachus et mansionarius (1).

Coll'andare del tempo però, come i monaci così i canonici ed i sodali della Romana Fraternitas cessarono di far vita comune ai SS. Giovanni e Paolo, come altrove, ed il loro sacro ordine cominciò a venire in disuso. Sotto il pontificato di Niccolò V (1447-1455) i canonici, da tredici che prima erano, si ridussero a cinque, ed il loro servizio fu negletto per forma che il sacro tempio parve abbandonato, e l'annesso cenobio disabitato cadeva in rovina. Allora il cardinale Latino Orsini, titolare, vi pose una comunità di Gesuati, religiosi di fresco istituiti dal beato Giovanni Colombini, cedendo loro non pure la chiesa ed il monastero, ma il palazzo altresì ossia presbyterium quale fino ab antico i titolari ebbero presso i loro titoli. Fu questo al Celio, dal secolo duodecimo in poi quella torre quadrilatera ancora in piedi presso gli ultimi fornici del Claudium, fra il campanile e la sagrestia odierna della basilica, chiamata fino ai dì nostri torre ed appartamento del Cardinale. Nel codice vaticano più volte citato: De ecclesiis Urbis, vi è la seguente menzione della dimora dei Gesuati al Celio: "Tengono

(1) Du CANGE, ap. RONDININI., De S. Clemente P. et M. cap. VI.

questa chiesa oggi li frati Gesuati, li quali non prendono ordini sacri, ma con le fatiche delle sue mani servono a Dio, et si sostentano, e quì in Roma si occupano in stillare acque da diversi fiori et herbe così per medicina come per odore

Di loro rimane un sol monumento certo nel cenobio, ed è una bella cisterna, lavorata di fuori con tutto il gusto dell'arte del cinquecento. Il suo davanzale, di forma ottagonale, è composto di cornici di marmo bianco che contornano otto specchi di opera laterizia. È isolata in mezzo ad un cortiletto, che prima era portico, e vi si ascende per tre gradini parimenti di marmo, disposti tutt'intorno. Sopra una delle otto facce è scolpito lo stemma dell'ordine, cioè il santissimo nome di Gesù circondato da raggi, similissimo a quello che fu poi adottato dalla Compagnia di Gesù.

Sotto il pontificato di Clemente IX l'istituto dei Gesuati fu soppresso, ed il convento dei santi Giovanni e Paolo, di nuovo abbandonato, fu dato in commenda al cardinale Giacomo Rospigliosi. Costui vi pose una comunità di monache Filippine, le quali vi abitarono dal 1665 al 1671, vale a dire fino alla morte dell'esimio porporato, dopo cui fu da Alessandro VIII nominato abate commendatario il cardinale Pietro Ottobone. Partite appena le Filippine, il cardinale Howard ottenne da Innocenzo XII, che vi si potesse stabilire un convento dei suoi frati Predicatori di nazione inglese, e questi vi dimorarono per oltre a venticinque anni. Finalmente nel 1697 lo stesso papa Innocenzo vi chiamò i benemeriti Padri della Missione

detti Lazzaristi, a cui con solenne breve attribuì tutte le rendite ed i proventi della pia casa (1).

Erano tuttavia ad abitar quivi i Lazzaristi, allorchè si avvenne a passare per la piazza dei SS. Giovanni e Paolo il P. Paolo della Croce, fondatore di un nuovo istituto di religiosi, detti volgarmente Passionisti. Il santo era accompagnato dal sacerdote D. Tommaso Struzzieri, che fu poi passionista ancor esso, e vescovo di Todi. Vedendo quella chiesa e quel cenobio, rimase come attonito, si fermò e chiese alla sua guida a chi fosse dedicata, e da quai religiosi servita. Ai SS. Giovanni e Paolo rispose quegli, ed il convento abitato dai Signori della Missione. Oh! Dio, esclamò allora Paolo, mosso da interna ispirazione, chiesa mia e casa mia! Qui debbo venire ad abitare io, qui debbo io morire! - - Non intese lo Struzzieri a che volesse alludere con quelle parole il suo santo amico; ma bene il conobbe pochi anni dopo coll'evidenza dei fatti. Volendo Clemente XIV, che con sua bolla aveva approvata la nuova congregazione dei Passionisti, provvedere il fondatore di una casa in Roma pei suoi, andava seco pensando in qual modo potrebbe mandare ad effetto il suo disegno. Un dì, avendo sentito dire che Paolo della Croce aveva un fratello nomato Giovanni, gli balenò alla mente il pensiero dei martiri della basilica del Celio; e come ispirato esclamò: Paulus et Ioannes! Il pensiero fu accettato immantinente, e poco dopo, avendo provveduto i Padri Lazzaristi di altra dimora al Quirinale, chiamò i Passionisti ai SS. Giovanni e Paolo (2).

(1) RONDININI, op. sup. cit. cap. VIII, pagg. 77-103.

(2) STRAMBI, Vita del ven. P. Paolo della Croce, 1786, pag. 173.

CAPO DECIMONONO.

La basilica dei SS. Giovanni e Paolo nel secolo XII.

Gravissimo ed oltre ogni dire funesto fu per tutta Roma l'anno 1084. Gregorio VII, assediato dall'imperatore Enrico IV in Castel S. Angelo, implorò soccorso dal famoso duca di Puglia Roberto Guiscardo, il quale, essendo accorso con trentaseimila dei suoi Normanni, e trovandone partito il nemico, rivolse il suo furore contro l'infelice città. E come se l'avesse presa d'assedio, la fece saccheggiare dai soldati, che vi commisero le più atroci crudeltà. Nella barbara esecuzione il peggio toccò ai più ricchi, nobili e popolati quartieri, che erano il Laterano, il Celimonzio ed il Foro. Essi furono manomessi da un capo all'altro, travolti nelle stragi e nelle rovine, e finalmente consumati dalle fiamme. Appena si trova in altra parte di Roma, dice il De Rossi, parlando dei danni di quell'incendio, esempio di un così gigantesco ammontar di macerie, quanto è quello che ammiriamo ora nel Celio, e che si distende per tutta la regione del Colosseo e del Foro romano, (1). La vetusta basilica di S. Clemente vi rimase interamente sepolta, caduta in gran parte si trovò quella dei SS. Quattro Coronati, guasta e malconcia quella di S. Stefano, senza dire delle minori chiese ed oratorii che abbondavano nella suddetta contrada, e disparvero del tutto,

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(1) DE ROSSI, Bullettino, 1870, pag. 136.

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